© Richard Avedon Picture of Jacob Israel Avedon
di Maria Giulia Minetti per La Stampa
Quando morì, il primo settembre del 2004, a 82 anni, Mark Donen, figlio del regista Stanley Donen, che per breve tempo era stato suo assistente, mi mandò un sms. «Dick Avedon è morto», scriveva. «Era una persona perbene. Mi disse: non fare il fotografo, i fotografi sono stupidi. Lui non lo era, per questo è stato grande». Dopo avere visto la mostra che lo spazio Forma gli dedica (Milano, piazza Tito Lucrezio Caro, fino all'8 giugno), credo di capire cosa intendesse dire Avedon con quella scortese osservazione sui suoi simili. Avedon, è palese, si sentiva un artista e agiva come tale. Gentile, affabile, simpatico, e «smisuratamente ambizioso» (ancora Mark Donen), usava la macchina fotografica con le stesse pretese con cui un pittore rinascimentale usava il pennello.
Nei ritratti Avedon ambiva a dare l'immagine «definitiva» di un grande personaggio, quella che l'avrebbe fissato per sempre nella memoria di tutti. E infatti l'immagine dei Duchi di Windsor (quella di loro due testa a testa, devastati dalle rughe, gli occhi acquosi, lei col rossetto sbavato), o di Karen Blixen (volto-teschio scheletrico ridente) o addirittura di Marilyn Monroe e dei quattro Beatles (che pure sono stati fotografati come nessun altro mai), ognuna di queste immagini è quella che si forma nella nostra mente quando si parla dei Windsor, o della Blixen, o di Joplin eccetera. È il ritratto che diventa l'«idea» del personaggio.
Poi però, chi s'aggira per la mostra, è preda di più struggenti emozioni, proprio suscitate dal tempo, dalla cronaca, dall'intrinseca qualità nostalgica della fotografia, dal suo esser legata al tempo perduto, e recuperato con una fitta al petto nel dettaglio di costume, nel volto noto, nell'ambiente d'epoca. Nella Parigi anni Cinquanta e «new look» dell'Avedon fotografo di moda la nostalgia addirittura si raddoppia: allo spettatore batte il cuore riconoscendo Suzy Parker o China Machado, modelle adorate da Dior e vestite da principesse, rasi, gioielli, guaine, crinoline, guanti, cappelli in giro per la «ville lumière» in ambienti anni Trenta, un po' da Apache un po' da aristocratici russi (ed era la raccomandazione delle redattrici di Harper's Bazaar, che dopo la guerra volevano riportare i lettori al fascino della città prebellica). Sono foto che vanno di pari passo coi film di Stanley Donen, appunto, stesso charme, stesso spirito, stessa ricreazione d'un mito su un mito precedente.
Resta da raccontare un terzo Richard Avedon, il testimone della storia, il fotografo che compone in grandi pannelli i funzionari dell'ambasciata americana in Vietnam nel 1969 o i protagonisti della politica washingtoniana dell'anno d'elezione presidenziale 1976 (il ritratto di Cheney giovane già racconta tutto il Cheney che verrà), ma anche s'aggira per Napoli o Palermo, nel 1946/47, puntando sul popolo un obiettivo neorealista. Tra le sue foto finali, un po' stererotipe, manieriste, à-la-Avedon, e queste prime, fatte da un fotografo ancora «stupido», si finisce per preferire queste. Contro il suo parere, probabilmemte.
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